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spaccata dalla gola all’inguine; sgorgano le viscere fumanti, che vengono versate in un lacre, il grande recipiente di legno che serve anche per l’innocente manipolazione del pane; viene scolato il sangue; un solo viscere è lasciato per ultimo, nella voragine ardente del grande ventre vuotato: è il fegato.

E adesso, amici, non inorridite, anzi esaltatevi come i bambini arrampicati sul muro, dal quale attraverso il velo acre del fumo che ancora esala dal rogo, assistono allo spettacolo come dall’alto di un anfiteatro: poichè il boia e il pacioccone con un cenno quasi ieratico, invitano chi dei presenti vuole mordere il fegato caldo della vittima. E c’è, sì, chi lo morde: una delle signorine la prima; l’esempio è imitato; le preghiere, le urla dei ragazzi perchè sia permesso anche a loro il rito sembrano quelle di figli di guerrieri. E, invero, la cerimonia ha un significato epico: poichè la bocca che morde il fegato ancora caldo di una vittima non conoscerà mai il gemito della viltà. Così, tante volte, quando ho piegato il viso sulla voragine sanguinante della vita ho ricordato il curioso rito degli antichissimi avi.

E coraggio bisognava dimostrarne subito, nelle faccende seguenti; meno male il primo giorno, quando il quadro continuava a colorirsi di tinte omeriche, e i macellai, dopo aver squartato il porco, dividendo il bianco dal rosso, versando il sangue raddolcito dallo zucchero e dallo zibibbo nei budelli più grossi, s’incaricavano di arrostire allo spiedo il miglior pezzo di filetto; e prendevano parte al banchetto alla tavola dei

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