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granito che forse gli ricordava le pietre della patria perduta. Poi la fame e l’ingordigia lo domavano: il truogolo diventava la fonte della sua nuova felicità. E che opima felicità. Tutto gli era concesso: le grasse succulente pappe di crusca, le ultime ghiande; e poi i fichi d’India rossi del sole della valle, e le scorze dei cocomeri per rinfrescarlo del loro ardore; e le perine selvatiche che portavano l’aspro odore degli altipiani ventosi; infine di nuovo ghiande, ghiande, ghiande; le sue zanne, a furia di masticare, diventavano lucide come punteruoli d’avorio.

Ma nello svolgersi delle stagioni lo accompagnava e confortava anche l’affetto della padrona: affetto sincero, scevro di equivoco interesse, pietoso anzi per la crudele sorte di lui: e l’animale doveva sentirlo, perchè fiutava sdegnoso l’ipocrita simpatia degli altri suoi fornitori di cibo. Una volta mia madre dovette assentarsi per tre giorni da casa: ebbene, il porco vivente in quell’anno di grazia dimostrò il suo dispiacere con un sacrifizio che pochi amanti abbandonati sono disposti a compiere: per tre giorni non volle mangiare.


È vero che si rifece nei giorni seguenti, e sempre di più a misura che cresceva e ingrassava; gli occhi gli si affondavano fra le guance cascanti e le orecchie molli di grasso; la beatitudine più invidiabile lo penetrava tutto; mangiava e dormiva, e anche nel sonno gemeva di voluttà. Arrivò un giorno in cui non potè più sollevarsi; ma sembrava un ubbriaco, gonfio di abominevole felicità.

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