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Un preistorico rito, oltre a quello di fare il pane in casa, voleva mia madre, nella nostra casa di Nuoro, insegnare alle sue farfallesche figliuole. Questo rito era venuto dalle montagne della Barbagia fin dai tempi in cui all’ansito dei puledri selvaggi si univa quello degli indomiti cavalieri Iliensi.

Si trattava di assistere al sacrificio del maiale e manipolarne le carni e i grassi fumanti. Per fortuna la battaglia, davvero a ferro e fuoco, era da vincersi solo una volta all’anno contro un nemico al quale, si può dire, fino a quel giorno io e le sorelle non avevamo dato importanza.

Veniva giù in marzo, coi caldi venti orientali, l’arzillo adolescente maialino: scendeva dai cari boschi di lecci dell’Orthobene con una grossa ghianda ancora ficcata nella zanna rabbiosa, coi piedi legati, sul cavallo del servo che lo portava in arcioni e invano tentava di placarne le proteste.

La gabbia dove veniva ficcato, sebbene alta e spaziosa, non lo consolava di certo: erano, i primi giorni, grugniti che spaventavano persino il prode gallo del cortile; e tentativi di smuoverne le sbarre e persino il grande truogolo di


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