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La suocera, e anche gli altri, vedevano la cupa sebbene ondeggiante passione di lui: e tentavano, col tempo e la tolleranza, di placarlo.

La bambina fu nascosta, allevata con latte di capra come una bestiolina abbandonata: la sposa, in silenzio accorato e paziente, lavorava giorno e notte, e quando era sola piangeva. Il marito non parlava, anzi stava fuori settimane intere, nel suo predio, dove scavava con ferocia le pietre e le radici più profonde, come cercando qualche cosa che gli rivelasse il mistero della sua infelicità. Così passò il tempo: ai due sposi, poichè le leggi della natura non si possono frodare, nacquero bambini; e i sassi del cortile furono, come cani e cavalli di pietra, frustati, cavalcati, abbracciati e morsi dai piccoli guerrieri felici.

A loro si univa la «figlia di ignoti» che cresceva dentro la tana della vedova come una viola nel crepaccio di una roccia: aveva nove anni, due lunghe trecce corvine, e gli occhi profondi, liquidi e glauchi, color di crepuscolo già stellato; ma tristi: gli occhi delle creature nate dall’amore trepido come quello delle cerbiatte che il pericolo minaccia; ed era timida, silenziosa, come se appunto nel sangue le scorresse la trepidazione di una colpa atavica; quando qualcuno dei grandi si avvicinava al gruppo dei bambini, ella correva a nascondere il viso in grembo alla sua madre adottiva.

Un giorno il padre degli altri bambini la potè sorprendere e osservare bene in viso come quando l’aveva veduta nel canestro. E il sospetto tornò a coprirgli il viso con un velo mortale:


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