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la sua vecchia padrona. La voce maschia insiste:
— Questa di Sant’Antonio abate non è bugia. Fancin l’ha sempre raccontata: egli ha proprio veduto il santo volger la testa come per dire: benedite, benedite pure, a me non importa un corno.
Ma subito s’udì un trillo, una voce ridente, e tosto Fancin, sebbene ad occhi chiusi, vide la figurina bionda ed il viso rosso della padrona giovane.
— E questo non è un miracolo se non è bugia di Fancin?
— No, Palmira, i miracoli son quelli buoni.
Allora altre voci risuonarono, tutte alte e forti, e la discussione si fece viva, animata, fra il ruminare e l’alitare tranquillo delle vacche, fra il muoversi delle ombre delle teste e dei fusi sulle pareti e sul soffitto. Dal vetro appannato del finestruolo una scintilla della luna che rischiarava la pianura bianca e nera come un cimitero enorme, guardava, e pareva una pupilla meravigliata che in quell’angolo del mondo cristallizzato dal gelo si facesse ancora tanto chiasso.
Fancin ascoltava e si sentiva così beato che gli pareva d’esser disteso dietro la siepe, in una bella sera di giugno, fra il gracidare delle rane.
Ecco la vecchia padrona, il cui viso paffuto e roseo, la falsa trecciolina rossa, gli occhietti lattiginosi, gli zoccoli civettuoli e le calze azzurre giustificano pienamente il nome infantile di Caterinin, eccola trasformata in un bel rospo grassotto, che dirige il coro: la sua voce maschia e sgradevole stona ma vince le altre; e la rosea
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