Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/210


è vero, ma la sua voce era quasi musicale, piacevole a udirsi come il canto represso, monodico, nostalgico, di un esiliato: oltre i monti, oltre i fiumi e le torri della patria perduta; cose belle, antiche verità diceva, lamentandosi della crudeltà della sorte, della prepotenza del forte contro il debole, del dolore che incombe su tutte le creature di Dio. E si rivolgeva a Dio, adesso, col canto religioso del guerriero vinto e dissanguato: «Dio, se la mia vita è questa, riprenditela: te la offro con gioia, come offro il fiore purpureo della mia cresta alla cattiva serva che se la mangerà di nascosto, e offro l’onda gloriosa e volante delle mie piume lunghe nate dall’iride, ai pennacchi dei nostri divini bersaglieri. Amen».


La signora, nel suo letto tornato dolce come una spiaggia marina dopo la tempesta, lo sentiva e ne provava sincera, umana pietà: e le veniva persino cristianamente da piangere; ma si tratteneva, per paura che le sue lagrime avessero il sapore di quelle del coccodrillo. Chi non si placava era l’avvocato: aveva perduto una sfumatura del suo prestigio col non essere riuscito completamente nel suo intento, e non tollerava la beffa pungente, per quanto elegantissima, del suo collaboratore nel ricorso su carta bollata da lire tre; e allora si creò una procedura tutta sua: andò dalla padrona del pollaio e le disse che se non tirava entro quel giorno il collo al gallo glielo avrebbe tirato lui a lei. Così giustizia, o ingiustizia, fu fatta.

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