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brava che l’acqua salisse, salisse, su dall’orto allo spiazzo, e a momenti penetrasse nel rifugio, per annegarci tutti.

E da mangiare? Arcangelo non aveva che un po’ di pane d’orzo e di patate: qualche cosa si poteva ancora andare a prendere nell’orto, ma con quel diluvio? Eppure un certo senso di sollievo, se non di allegria, rischiarò i piccoli cuori smarriti, quando la donna che ci accompagnava, scuotendosi tutta come passera che va in cerca di cibo per i suoi uccellini, trovò un po’ di farina e sull’asse che serviva di tavola ad Arcangelo la impastò e fece una focaccia: e spazzò la pietra sulla quale ardeva il fuoco, e ce la mise su, rotonda e pura come una grande ostia. La focaccia cominciava a gonfiarsi, quasi per rallegrarci e soprattutto distrarci con le sue smorfie, quando si sentì nella strada, fra il rombo del temporale, uno squillo di sonagli, che ci sembrò uno scampanìo della notte di Natale.

— È nostro padre, col carrozzino.

Era lui; e davvero che la sua presenza, come quella del padre celeste, parve sedare la tempesta; anche il pino si placò, brontolando, sì, ma con soggezione affettuosa. Tale era l’uomo che arrivava, che anche le cose e gli elementi sentivano l’influsso della sua bontà.

Allora Arcangelo aprì la seconda stanzetta: non dovevano esistere misteri per il suo benefattore. E in un angolo si vide una cesta; e dentro la cesta c’era una lepre coi suoi leprottini, tutti con le orecchie dritte come germogli dorati, tutti con gli occhi aperti come quelli dei bambini insonni.

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