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per miglior sorpresa e gioia delle sue piccole padrone. Fu dunque una nuova festa; tanto più che sui fichi protervi c’era ancora qualche frutto, la cui polpa granulosa ricordava il sapore del tamarindo, e nella vigna da poco vendemmiata, maturava qualche tardivo grappolino che pareva d’uva spina. La giornata era calda, fin troppo calda, e d’un tratto una nuvola nera venata di rosso stese dietro il pino uno sfondo apocalittico. Si levò il vento, caddero le pigne, e di alcune, già spaccate, coi pignuoli vennero giù, in fraterna allegria, grossi goccioloni e chicchi di grandine. Per le fanciulle e i bambini la festa poteva essere completa; e, infatti, sullo spiazzo sotto il pino fu subito intrecciata una danza come di lepri alla luna: salti, sberleffi, spintoni, agili ripiegamenti e gridi di gioia: e per un po’ l’albero parve compiacersene, dalla sua altezza gigantesca, come un avo protettore si gode i giuochi dei pronipoti; ma poi, d’improvviso, parve ricordarsi la sua austera dignità: e i suoi rami si contorsero, come invasi da innumerevoli biscie, e sibilarono, frustandosi col vento che anch’esso, quasi profittando malignamente della prima distrazione dell’albero, s’era fatto di una violenza inaudita.

Ci si salvò a stento nella casetta, e Arcangelo, pallido e spaventato, accese il fuoco per asciugare i nostri vestiti. Per fortuna l’acquazzone veniva da nord, batteva contro il pino e contro il muro posteriore della casa, scorrendo poi ai lati del rialto, in due scanalature che il previdente colono aveva scavate l’inverno prima: in breve l’ortaglia fu allagata, fece una cosa

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