Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/198

— Va nella località detta Il pino, e guarda se c’è qualche cosa da fare.

L’uomo andò: tornò che sembrava un altro, con gli occhi che pareva avessero preso un po’ dell’azzurro vivido e scintillante sopra il pino. Disse:

— Tutto c’è da fare: poichè c’è un tesoro nascosto fra le pietre sotto la muriccia di cinta.

E come l’altro lo guardava come si guardano gli idioti, aggiunse:

— C’è l’acqua.


Si chiamava Arcangelo. E come un arcangelo, a poco a poco egli mutò il luogo in un piccolo paradiso terrestre. Scavò fra le pietre, fece una vasca ove l’acqua si raccoglieva lentamente, sì, ma bastevole per alimentare un orto che egli piantò coi quadrati bordati di fiori. Cose mai vedute. Quando si andò a vederle, fu una festa, per noi fanciulle, selvatiche, sì, come il luogo prima che arrivasse Arcangelo, ma anche con naturali disposizioni ad essere, come il luogo, ingentilite e coltivate. E l’anima nostra rassomigliava al pino, altissimo e amico del cielo, delle nuvole, degli uccelli, dei colori orientali dell’orizzonte: il pino che sovrastava ogni cosa intorno, e pareva più alto dei monti lontani, e viveva per conto suo, sopra la piccola eppure grande fatica dell’uomo esiliato, senza badare ai cavoli e ai fiori; solo e potente con le sue calme, i suoi mormorii, le sue rabbie oceaniche quando lottava contro i venti e ne vinceva il rumore.

Venne un giorno in cui Arcangelo scontò la

188 —