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avevano la meglio, quando nelle sere di estate scendevano in lizza, armati di canne e di sassolini, nella piazzetta pietrosa che era come uno spalto sopra la grande valle solitaria, massacrando di botte i cugini gobbi e rachitici, che a loro volta si vendicavano sugli alberelli intorno al parapetto, strappandone le fronde già tanto afflitte sul cielo rosso e dolce della sera.
Le donne non intervenivano, occupate a preparare il pasto per i loro uomini, negli antri dalle cui porticine uscivan il fumo e l’odore dei fagiuoli cotti col lardo. Il primo a tornare era sempre Angioletto, col suo cavallo nero e tozzo che pareva un mulo, attaccato a un biroccino azzurro e rosso sul quale egli portava certi sacchi ricolmi non si sa di che cosa. Era la merce dalla quale traeva scarsi guadagni; ad ogni modo da vivere ce n’era sempre, e i ragazzi vittoriosi correvano a lui con grida belluine, come se egli tornasse da grandi imprese, lo aiutavano a slegare il cavallo e rimettere il biroccino nella stalla cavernosa; e infine sedevano con lui intorno alla pentola ancora in bollore come leprotti ai quali il padre ha procurato il cibo. Gli altri, invece, arrampicati sul cielo cremisi, sembravano piuttosto scimmie; e quando il padre arrivava, con calma, sul suo bellissimo cavallo bigio, dalla testa fina e gli occhi che riflettevano il crepuscolo luminoso, non si disturbavano a scendere dal parapetto, tanto loro avevano già mangiato, poiché in casa loro nulla mai mancava; ed egli smontava agile ma nello stesso tempo dritto e duro, come se i suoi pantaloni di pelle e il cor-
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