Pagina:Deledda - Il cedro del Libano, Milano, Garzanti, 1939.djvu/147


scevano, sulla pelle bianca delle loro braccia, i mazzolini di violette delle ecchimosi dei pugni di lui. Appena lo videro si strinsero meglio al muro, mentre i maschi si schieravano loro davanti: tutti disposti al coraggio, alla lotta.

Ma una cosa insolita avviene. Arrivato a metà del muro, il ragazzo si ferma, spalanca gli occhi, e con un baleno di cristallo, li richiude, fa un cenno di sì con la testa, come rispondendo a una sua fulminea domanda: e apre la bocca, coi denti di smalto che riflettono la luce. E con un solo slancio balza sul muro, scavalca la bassa cancellata, si lascia andar giù, come un sacco vuoto del suo carbone. Il gruppo avversario non si sorprende: anzi, dimenticando la difesa delle bambine, le strapazza per veder meglio dentro il recinto: sebbene sappia già di che si tratta.

Si trattava che nell’ultima settimana un uragano aveva, con una violenza da esercito in guerra, devastato il giardino. Le foglie erano quasi tutte cadute: quelle della paulonia pendevano come stracci dalle fronde stroncate; e quelle del fico nano, che con le contorsioni grottesche dei suoi rami rappresentava il buffone del giardino, sembravano pipistrelli addormentati. Così il luogo aveva perduto alquanto il suo richiamo di piccolo paradiso terrestre, di paradiso perduto per la razza dei bambini poveri del quartiere, ma in cambio si vedevano, non più velati dal ricco fogliame, alcuni frutti meravigliosi: gli ultimi cachi, rossi e lucidi come boccole di corallo; e la prima melagrana del giovane albero, che la offriva in mostra, rossastra,


— 137