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sbocconcellata; un canestrino con rimasugli di pane che parevano sassolini; e infine il bastone.

Ah, di questo, proprio, ne presi io il sacro possesso, sebbene, quando era necessario farne uso, gli avvolgessi il pomo nodoso col fazzoletto da naso. Era tutto unto, questo bastone, e nei giorni di caldo pareva sudasse. E già faceva caldo: luglio, con gli alberi dell’orto e degli orti attigui pesanti di verde, palpitanti di cicale; e l’arsura profonda ma asciutta e non polverosa delle lunghe siccità meridionali, che alla notte, sotto la luna, ha un odore quasi inebbriante di erbe che languiscono, di fiori aromatici che resistono ad ogni calore.

Ma le ore più belle, per le tre, o quattro, a volte anche cinque ragazzine, riunite nella casa della mendicante, erano quelle che precedevano l’incanto notturno: le ore del lungo vespero, quando la mamma preparava la cena, e dalla cucina verso la porta opposta dell’orto arrivava l’odore delle patate fritte con un po’ d’aglio, e delle animelle infarinate.

A noi, che importava della sicura cena materna? Noi eravamo povere mendicanti, senza pane, senza luce, tranne quella della luna; anche senza acqua, perchè tanto era scarsa quella delle distanti fontane che la serva minacciava di rompere la nostra brocca se, di nascosto, la si riempiva a quella della casa.

Tempi crudeli, di antica leggendaria carestia: nessuno dava un obolo, un pane, una crosta di formaggio, alle povere mendicanti, che al crepuscolo, dunque, mentre gli altri bambini, anche quelli poveri sul serio, giocavano nella strada

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