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del paese portava, qualche volta, loro notizie: notizie sempre eguali, ma sempre buone. Non si sapeva se Biancofiore avesse mai avuto una passione, un dolore, una malattia. Come i popoli felici, non aveva storia. Non scriveva mai, non mandava neppure un saluto: forse si era anche dimenticata del passato, dell’amica, come ci si dimentica di un oggetto perduto che non si spera più di ritrovare. Lo scalino della sua vita era la panchina di marmo, che non saliva, ma neppure scendeva, e soprattutto non presentava pericoli se non quelli di un improvviso ma subito riparabile acquazzone. Le sue mani sempre giovani, con le dita che come i ceri non accesi non si consumano mai, lavoravano solo qualche maglietta per i bambini poveri; sebbene i bambini poveri non dovessero goderne molto calore, perché lei non ci metteva molto del suo.
Con tutto questo la sua antica amica riprendeva a invidiarla, più che se Biancofiore avesse trascorso una vita di movimento, di lusso, di passioni soddisfatte, di ambizioni raggiunte. Dall’alto del suo scalino, l’amica salita in alto vedeva il panorama del suo passato come sotto la luce ineffabilmente triste di un luminoso tramonto di maggio; le rose del mattino sfogliate, la sera che si avvicinava, senza più il mistero dei sogni, anzi col sorriso duro delle realtà di un altro giorno passato invano.
E allora, tra vanità e vanità, col vuoto alle spalle e davanti la visione delle cose perdute, meglio la vita immobile di Biancofiore. Ella almeno non rimpiange nulla; come un bambino morto nei suoi primi anni rimane anche lei sem-
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