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senza un solo lamento. Allora io e le sorelle ci si mise a piangere: e mai lagrime di coccodrillo furono più sincere.


Eppure la sorte di Biancofiore e della sua amica fu molto diversa: ella rimase nella sua bella casa, coi suoi canarini, i tulipani, i gelsomini, la serva fedele, mentre io salivo la scala della vita, con tutti i suoi diversi gradini, a volte di marmo lucente, a volte di pietra aspra e corrosa. Non mi mancarono l’amore, la maternità, l’agiatezza, la fama, le vanità mondane; ma neppure il dolore, la malattia, il disinganno. In certe ore, quando appunto la scala disuguale della vita pare mancante di qualche gradino precipitato non si sa come, e nel vano si scorge un vuoto minaccioso come quello di un trabocchetto, io mi siedo sullo scalino ancora fermo, con le spalle al pericolo, e guardo la strada già fatta, pensando se non sarebbe stato meglio non farla. Allora ricordo la casa nuda e primitiva, lo spigolo di una parete bianca dove erano rimaste le tacche impresse da me negli anni giovanili, come le linee di un termometro che segnava la febbre dei miei sogni; il tronco per sedile, l’uccello che parlava, Biancofiore nel suo giardino di tulipani e gelsomini.

Biancofiore non si era mai mossa dal suo sfondo, come non si muove una figura, per quanto bella e viva, dal quadro ov’è dipinta: aveva la mia stessa età, ma dimostrava sempre quindici anni; e adesso era sola, con la vecchia serva fedele che pareva anch’essa una figura del quadro, destinata a viverci sempre. Gente


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