tato di scalare il muro del giardino, si procurò un grande bellissimo cane lupo, sempre agitato come un’onda in tempesta: alla notte i suoi occhi si vedevano di lontano: legato davanti al cancello del giardino, riempiva il luogo tranquillo di veri ruggiti, e la gente andava a vederlo appunto come un leone in gabbia. Allora mi vergognai anche del nostro mite, del nostro nero Maometto: un cagnolino bastardo, la cui ragione di esistere nessuno l’aveva mai capita: era vecchio e umile, amico di tutti, anche dei ladri: infatti, una volta che ci erano state rubate le galline, non ne aveva dato il menomo avviso: non solo, ma persino i gatti gli destavano paura. Nel vicinato tutti si ridevano di lui: dicevano che gli avevamo messo la dentiera: la stessa ghiandaia lo sbeffeggiava. Inoltre cominciarono ad arrivare certe poesie anonime, composte proprio contro di lui, ed erano veri libelli, dove la povera bestia veniva insultata, calunniata, derisa, minacciata di essere accalappiata e ridotta in salsicce. Era, certo, uno scherzo di cattivo gusto, e Maometto forse leccava la mano al suo codardo poeta: ma io ne provavo rabbia e umiliazione e, d’accordo con le sorelle, si decise di compiere un delitto. Complice, suggestionata da me, fu Biancofiore: dalla vetrina dei medicinali del padre riuscì a sottrarre una polverina velenosa. Maometto la prese, mischiata a una polpetta: la prese proprio dalle mie mani, scodinzolando con gioia, guardandomi coi suoi occhi umani che non ho mai dimenticato; poi cominciò a tremare, corse a nascondersi nel suo covaccio, morì da stoico,