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via rinforzatasi appunto dall’attrazione dei contrasti. Biancofiore, bella, ben vestita, sempre accompagnata da una domestica già anziana che scimmiottava la frigida austerità della nobile padrona, non aveva, nonostante l’esempio e la biblioteca del padre, che una gracilissima intelligenza: io la stordivo con le mie invenzioni, con l’essere la prima della scuola, con la beffa benevola ma condita d’invidia, che per vendicarmi indirettamente di lei mi prendevo delle cose e delle persone che la riguardavano. Del resto questo istinto, fatto, più che d’ironia, di umorismo, era comune in tutta la nostra razza pastorale, povera ma orgogliosa, selvatica ma intelligente: è il sale che condisce il pane degli umili. E, così, io andavo nella casa e nel chiuso giardino di Biancofiore come in un piccolo paradiso che non avrei mai posseduto; e i tulipani, le azalee, le rose bianche, l’albero del pepe, la gabbia d’oro con le fiammelle dei canarini, le vetrate che riflettevano con fantasie lacustri il cielo e le siepi di gelsomini; il vestito rosa della mia amica, le sue collanine di corallo, mi lasciavano, dopo queste visite, il gusto amarognolo delle feste godute in casa altrui. L’orto coi cavoli, il tronco per sedile, il focolare fumoso, tutto mi umiliava e mi irritava, e soprattutto la ghiandaia sempre vigile e curiosa che mi chiamava con la prima sillaba del mio nome, e pareva indovinasse e deridesse i miei sentimenti.


Poi vi fu la tragedia dei cani. Il padre di Biancofiore, dopo che alcuni ladruncoli avevano ten-


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