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un albero esotico, nientemeno che di pepe, ombreggiava con le sue frangie di seta una panchina di marmo bardiglio che sembrava di torrone. Una gabbia rotonda e dorata con due canarini pendeva come una lampada nel salotto da pranzo. Tutto per me era straordinario, in quella casa: perchè la nostra era vecchia e nuda, la famiglia numerosa e grezza, l’orto pieno di cavoli e di ortiche; un tronco abbattuto per sederci, nel cortile terroso e tumultuoso di galline; l’antico focolare omerico in mezzo alla cucina; e per ricevere le visite, per lo più dei canonici della cattedrale e delle loro candide sorelle, la camera da letto degli ospiti, quando questi non c’erano.
Avevamo anche noi, appesa in cucina, una grande gabbia che pareva una stia, con dentro una vecchia ghiandaia grigia, spelacchiata e insolente. È vero che conosceva uno per uno tutti gli abitanti della casa, ed anche i vicini, e li chiamava a nome, con una strana voce che pareva venisse da un mondo lontano, dal mondo favoloso ove anche gli animali parlano e sono intelligenti e filosofi più che certi uomini del nostro: questi uomini le avevano tagliato la punta delle ali, facendole perdere l’azzurro che ricordava le alture boschive dove era nata: in cambio essa pareva beffarsi di loro, e specialmente della padroncina che si vergognava della vivace prigioniera pensando ai gentili stupidi canarini della sua amica.
Amicizia nata dalla vicinanza sul banco di scuola della seconda classe elementare, e via
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