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le gambe molli e il pelo giallo e nero umido di sangue: aggrovigliati ancora, come nel ventre materno. Dovevano esser nati da poco, abbandonati momentaneamente dalla madre andata in cerca di cibo.

Il cacciatore si piegò a toccarli, ed essi si sciolsero: i piccoli occhi lo guardarono senza paura: poi uno di essi aprì il muso e leccò l’altro. Avevano fame; e l’uomo, calcolando il tempo dell’assenza della madre, pensò che essa forse era stata veduta e cacciata dai pastori; altrimenti sarebbe stata già di ritorno. Ad ogni modo si poteva aspettarla, caso mai tornasse. Si appiattò dunque di nuovo, a tiro di schioppo, lasciando che Dama, a sua volta, seguisse il suo istinto infallibile: ma, cosa che gli parve straordinaria, si avvide che la cagna si aggirava moscia intorno al covo, fiutando la terra con le orecchie basse come faceva quando frugava nella cucina di casa in cerca di cibo.

Allora pensò che anche lei doveva aver fame; poichè egli era uscito di casa sprovvisto, col solo istinto di togliersi dal suo lungo stordimento, di sfuggire ai pensieri vili che gli piluccavano il cuore come le volpi affamate, quando non hanno altro cibo, si nutrono del frutto del corbezzolo. E, ripreso da propositi che gli sembravano gagliardi solo perchè eran feroci, continuò ad aspettare la femmina del cinghiale: l’avrebbe squartata per darne le viscere al cane.

La madre però non torna, e il cane si fa sempre più strano, inquieto, ma di una inquietudine mansueta, come quando lungo la strada fiutava il passaggio dei suo poveri cagnolini buttati nel

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