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fischiò, urlò, riempì di echi belluini quel cimitero di pietre.


Da quel momento gli parve di entrare in una specie di allucinazione. Si mosse e andò in cerca della bestia: scivolò, si graffiò tutto, lottando con un rovo che lo tratteneva con morsi di serpente; girò più volte intorno al masso, col desiderio puerile di smuoverlo, come se Dama fosse stata ingoiata dalla bocca infernale. La pietra pareva sorridere: vista da vicino era quasi turchina, con sfaccettature brillanti.

Per quanto esplorasse tutta la conca, il cacciatore non trovò la cagna: esasperato risalì dal lato opposto, deciso di spingersi fino all’ovile dei porcari. Ed ecco, mentre attraversa una breve radura, dolce di verbaschi argentei e di felci nuove, vede Dama sbucare dal limite del querceto e corrergli incontro, poi tornare indietro sui suoi passi, indicandogli la via da seguire. Ci siamo. Ha certamente trovato la tana del cinghiale, e manovra in quel modo per non allarmare la preda. Il cacciatore dunque la segue, ma è di nuovo disorientato perchè si accorge che il cane ha un modo insolito di correre, fermarsi, voltarsi, ascoltare, fermarsi ancora ad aspettare il padrone. E poi i suoi occhi sono ritornati buoni, domestici: pare che, invece di trovarsi a caccia di cinghiali, si diverta a giocare nel cortile di casa.


La spiegazione non tardò: poichè in un piccolo anfratto, fra quercioli nani e pietre barbute di rovi, in una specie di nicchia, l’uomo finalmente vide tre cinghialetti che avevano ancora


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