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anche assalendo l’uomo come una belva del deserto. Il cacciatore però si sentiva anche lui un po’ belva: anche lui, come appunto il cinghiale, aveva cacciato via dal suo covo la femmina, dopo aversela goduta, e adesso difendeva la sua miserabile libertà con le armi selvagge della solitudine. Belve, del resto, tutti: la donna che gli aveva bevuto il sangue, lo stesso fratello che gli rubava la sua parte di eredità e stava in agguato presso la zia selvatica aspettandone la morte, come egli adesso il passaggio del cinghiale.
La cagna intanto non ricompariva e non se ne sentiva neppure il leggero fruscìo. Tutto intorno era immobile, in un silenzio freddo e pesante, sotto il cielo di un azzurro di diaspro, che aveva anch’esso qualche cosa di pietroso. Cominciando a inquietarsi, l’uomo ricordò certe leggende, di uomini e bestie che sparivano nella conca, senza che più nulla se ne sapesse: neppure le ossa si ritrovavano: egli non ci credeva, o meglio credeva che, più malefici dei diavoli nascosti come vermi sotto la pietra, uomini malvagi combinassero quelle sparizioni. Il primo sospetto che qualche lesto e poco scrupoloso pastore gli avesse accalappiato la cagna lo infocò tutto: allora sentì davvero sapore di sangue, e un senso di odio contro tutta l’umanità gli calò come un avvoltoio sul cuore. Sentì che, se la cagna avesse sofferto il minimo danno, la sua vendetta si sarebbe estesa come un incendio che da lungo tempo cova: contro tutti; la donna, il fratello, la madre stessa se fosse stata viva.
E la cagna davvero non ricompariva; ed egli
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