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Da qualche mese egli vivacchiava dando lezioni di italiano e di.... mandolino, e menava una vita ritirata e triste.

Perchè si era presentato invano al concorso per una borsa di studio, e perchè due giornali avevano rifiutato un suo articolo, gli pareva che tutti i suoi sogni fossero caduti.

Non soffriva per la miseria, ricordando la sua infanzia povera, ma si sentiva improvvisamente piccolo, umile, smarrito nel tumulto della grande città.

Un tempo gli era parso di essere un giovine d’ingegno: aveva cominciato a scrivere un romanzo; aveva fatto molti versi, aveva sognato la fortuna: ora più nulla. S’avviliva, si rimpiccioliva, passava rasente ai muri perché non gli si vedessero le scarpe sdrucite, ma non provava rancore nè vergogna. In fondo sperava che suo padre (oramai sapeva che zio Larentu era suo padre) si rabbonisse e continuasse a sovvenirlo; ma non voleva umiliarsi per il primo. Fu in quel tempo — era ai primi d’inverno — che lesse, tradotto in italiano, Delitto e castigo di Dostojewsky. Cominciò a leggere il terribile romanzo una domenica, una sera tiepida ma annuvolata, nebbiosa e triste.