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vide Si-moi che fermatosi al cancelletto con le mani sul cranio lucido non aveva il coraggio di uscire per la vergogna di farsi vedere cosí pelato dalla gente. E gridava:

— Giaffà, amore mio, anima celeste mia, mio azzurro e celeste Impero, ridammi la mia parrucca... io sono il tuo schiavo, ti bacerò la punta dei pollici dei piedi, ti spidocchierò le treccie, ma per amore di tutto ciò che è celeste, ridammi la parrucca...

— Giaffà? — gli rispondeva di lontano Giaffà con finta aria di stupido. — Che c’entra Giaffà? Io sono Agara. Addio — e s’allontanava saltando cantando e ridendo, che la strada era tutta sua. Si-moi ritornò disperato in casa e quando si levò le mani dalla testa gialla e lucente, sembrò che splendesse un secondo sole.

* * *

— Proboscide d’elefante di quattro mesi — ordinò Giaffà sedendosi al tavolo della fumosa trattoria L’Elefante nero. — E presto!

— Sí, gentile Agara — rispose il cameriere facendo l’occhietto al padrone e ai clienti che già cominciavano a ridacchiare ripromettendosi un