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vera ossessione. Appena si trovava libero andava invariabilmente, quasi senza accorgersene, a casa sua. Anche prima d’arrivare al viottolo sentiva che il Farre era là al suo posto; tuttavia s’ostinava a sperare il contrario ed entrava. E l’odiosa figura era là, sempre là.
Poco per volta fu preso da una specie di delirio. Veniva col desiderio di chinarsi sul bimbo, di baciarlo, di curarlo colle sue mani, di dirgli parole affettuose: gli pareva che la forza del suo amore sarebbe bastata per guarirlo; e invece veniva, o bastava appena che vedesse il Farre per sentirsi paralizzato; non osava neppure posar la mano sulla fronte del piccolo moribondo, mentre entro di sè urlava di dolore e di rabbia.
La sera del settimo giorno della malattia di Berte, zia Annedda gli venne incontro piangendo.
— Non passerà la notte, — mormorò.
— Il Farre è ancora là, mamma?
— Non c’è.
Egli si slanciò nella cameretta, scostò Maddalena che piangeva silenziosamente presso il lettuccio, e si chinò ansioso sul bimbo. E il bimbo moriva; il piccolo volto, già sì grazioso e pieno, era livido, scarno, improntato