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Ecco, il lontano canto sardo si fece un po’ meno lontano; tra il coro melanconico saliva una voce armoniosa di tenore, nella quale tremolava tutta la voluttà e la dolcezza di quella notte lunare. Elias sollevò il capo, colto da un improvviso incantesimo. Dove mai aveva sentito quella voce? Una ricordanza quasi fisica lo fece trasalire. Ricordava di aver vissuto un’altra notte come quella, di aver sentito quel canto, di esser stato triste come adesso lo era. Dove? Quando? Come? S’alzò, s’appoggiò alla finestra, sotto il purissimo raggio della luna allo zenit. La brezza portava lontane fragranze: egli rabbrividì e ricordò la notte in cui aveva pianto di passione ai piedi di San Francesco.

La voce dell’Apostolo non parlava più; il velo era caduto: che erano mai l’eternità, la morte, la vanità d’ogni umana passione, il bene, il male, la perfezione, la vita eterna, davanti alla gioia fuggente di quella notte d’aprile, di quel soffio di brezza, di quel canto d’amore? Ed Elias fu vinto; la vita lo riafferrò tutto: ed egli cadde inginocchiato davanti alla finestra, sotto la luna, e pianse come un bambino colto da un supremo delirio di disperazione.