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ciava ad indorarsi. E l’erba tenera e fitta cresceva ricoprendo le stoppie brune; qualche fiore selvatico, specialmente vicino all’acqua, apriva i melanconici petali violetti.

E il sole spandeva tepori grati in ogni cantuccio, sulle macchie, sui muri, sulle roccie; e in quella dolcezza di sole, sotto il tenero cielo, con i suoi prati d’erba breve e fina, la tanca sembrava sempre più vasta, sconfinata, coi limiti perduti in riva ai placidi mari dell’orizzonte.

La vita nell’ovile proseguiva calma e, in quella stagione, poco faticosa.

Zio Portolu si assentava spesso e Mattia menava vita un po’ selvatica e taciturna. Amava molto la greggia, i cani, il cavallo, Mattia: il gatto e il capretto, che diventava capro, gli andavano sempre dietro, ed egli parlava con loro come con amici. Da qualche tempo si trovava occupatissimo a fabbricare arnie di sughero, volendo nella seguente primavera formarsi un alveare. Era di gusti semplici e non aveva alcun vizio, ma era superstizioso e un po’ pauroso. Credeva ai morti e agli spiriti erranti; e nelle lunghe notti della tanca, seguendo il gregge aveva più volte impallidito sembrandogli di veder guizzi misteriosi