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66 | grazia deledda |
ancora quel picchiare come di tamburo che annunzia una disgrazia: lo sente ancora rimbombare dentro il suo cuore; è il suono più terribile che abbia mai udito, più funebre di quello che annunzia la morte, più del suono della campana che chiama a spegnere un incendio. La buona serva si alza; ma prima di aprire ascolta, con ansia paurosa. Chi può essere? Un bandito, un ladro, un uomo della giustizia? Anche un fantasma può essere, un morto che passa nella strada e bussa alle porte per avvertire i viventi che l’inferno li aspetta.
Era qualche cosa di peggio ancora: un morto vivente, che annunziava l’inferno, sì, ma prima della morte, nella vita stessa.
Era Santus, con gli occhi azzurri velati, la lingua legata.
Per misurare la gravità di queste disgrazie bisogna considerare anche l’intransigenza malevola dell’ambiente dove si svolgevano. Tutti si conoscevano, nella piccola città, tutti si giudicavano severamente, e quelli che meno avrebbero dovuto scagliare la prima pietra erano i più inesorabili. Quando si seppe del ritorno e della perdizione di Santus, fu un lungo compiacersi e sogghignare, fra i conoscenti della famiglia; e i più cattivi erano i parenti. C’erano due cugine della signora Francesca, due vecchie zitelle che facevano pensione a un canonico, – questo veramente santo, – e stavano sempre in chiesa. Ogni tanto si presentavano