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Ma io continuavo ad amar Columba per pietà; volevo trarla dal mondo ove viveva, mi sembrava che liberando lei dalle superstizioni e dalle miserie che la circondavano avrei cominciato a liberare tutto il mio popolo.

Intanto per continuare gli studi vendevo la mia poca roba: questo mi diminuiva agli occhi dei miei compaesani e si diceva che spendevo i denari per divertirmi. Ogni volta che tornavo in paese mi si guardava con maggiore curiosità e diffidenza.

Columba mi lasciava capire che fra lei e Banna era una lotta continua a proposito del progettato matrimonio.

— Quando tu sei nella città mia sorella mi dice, ogni sera: «a quest’ora egli sarà con le donne indemoniate di quei posti ove si mangia denaro» oppure: «egli ti mangerà anche la cuffia e ti lascerà sola e andrà a divertirsi con altre donne». Ed io allora mi metto sul limitare della porta, guardo la stella della sera come la guardano i prigionieri e piango e piango.

— Dunque tu dài retta alle malignità di tua sorella?

— No, no, cuoricino mio; ma penso giusto che tu sarai un avvocato, un signore, ed io sarò sempre una paesana. Tu ti vergognerai di me.

Invano cercavo di liberarla dalle suggestioni maligne della sorella e del nonno; ella era sempre triste e diffidente. Io soffrivo e quando andavo in quella casa provavo un senso di oppressione come se nei ripostigli e negli angoli bui si nascondesse un nemico pronto a farmi del male.

Ma quando ero nella città sentivo la nostalgia della mia campagna selvaggia e ventosa e ritornavo con gioia alla mia stamberga.

L’anno scorso tornai per Pasqua: da Nuoro