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matrigna era ricorsa a zia Martina Appeddu. Quando arrivai mio padre era morto.

Giaceva disteso per terra su stuoie e sacchi, col viso violetto rivolto alla porta; e la matrigna coi capelli sciolti coperti di cenere, in mezzo a un cerchio nero di donne fra cui Banna, Columba e tutto le vicine di casa pallide e macabre come streghe, ululava intorno al cadavere, si batteva la testa alle pareti, si buttava per terra e urlava come un’ossessa. Non dimenticherò mai la triste scena. Rimasi ore ed ore impietrito in un angolo guardando mio padre morto e le donne ululanti. Avrei voluto cacciarle fuori ma non osavo perchè la presenza del cadavere con quel viso violetto che pareva sogghignasse di dolore e di beffe mi imponeva rispetto. D’altronde quei gridi funebri scomposti, d’un dolore folle, mi sembravano talvolta i gridi stessi del mio cuore. Tacevo, ma tutto gridava entro di me.

Portato via il cadavere mi scossi dal mio dolore.

Alcune donne continuavano ad ululare mentre le prefiche di mestiere ricevevano già il compenso: una misura di frumento e una libbra di formaggio. La vedova batteva la testa contro il giaciglio dal quale era stato portato via il cadavere.

Io mi alzai e dissi:

— Adesso basta: tutto è finito.

Ma la scena doveva continuare fino a notte inoltrata: di tanto in tanto la matrigna s’alzava, s’affacciava alla porta dicendo di sentire i passi del marito che tornava dall’ovile; poi urlava chiamandolo. Sembrava pazza ed anch’io sentivo un brivido di follia. Mi alzai una seconda volta e dissi con forza:

— Donne, adesso basta. Andatevene, se no vi caccio via per forza.

Deledda, Colombi e sparvieri. 6