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cale; il loro strido d’amore e di rapina faceva sollevare il viso a Columba, e quel viso delicato e ardente, quei grandi occhi dalle palpebre brune, tutto il quadro semplice e antico richiamava sulle mie labbra i versetti del «Cantico dei Cantici».
Ma la presenza di Banna mi richiamava spesso alla realtà. Ella usciva nel portico e attaccava una bisaccia o una sella ai lunghi piuoli infissi nel muro; sgridava la vecchia serva che le rispondeva con insolenze, attraversava il cortile, mi salutava sorridendomi e si indugiava al pozzo.
I suoi saluti frequenti, i suoi sorrisi ambigui, che talvolta mi sembravano beffardi, tal’altra pieni di tenerezza, mi destavano un senso di mal essere. Ella mi mandava spesso regali di frutta, carne, dolciumi. La vecchia serva scalza dal corto viso egiziano, con le gonne rigide e la cuffia lunga, veniva a passi silenziosi con un piatto sotto il grembiule. Lentamente, quasi con mistero scopriva il dono.
— Per Jorgeddu bello! Lo manda Banna, la mia padrona.
Era benevola e ironica. La mia matrigna prendeva il piatto e lo vuotava ringraziando con dignità.
— E quando si sposa dunque, la tua padrona?
— Presto, anima mia; non c’è furia, però.
— Eh, aspettano forse che lo sposo cambi i denti?
— E perché no? I ricchi han sempre sette anni, anche quando ne hanno settanta.
— Ascoltami, consolazione mia, — mi diceva la matrigna, quando la vecchietta se ne andava col suo piatto sotto il grembiale, — se Banna non fosse promessa sposa ti consiglierei di guardàrtela: con lei ti intenderesti forse meglio che quell’acqua morta di Columba....
E mi porgeva una delle pere verdi che la ser-