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ergeva selvaggia pronta a gettarsi contro Columba che si ritraeva spaventata.
Columba mi destava pietà; era un essere debole bisognoso di protezione, e l’idea suggeritami dalla matrigna di innamorarmi di lei mi sembrava buona e generosa. Di due anni più giovane di Columba io ero già alto e forte mentre lei, sottile come un asfodelo, sembrava ancora una bambina.
Un senso di poesia barbara e un velo di leggende circondavano la casa antica ov’ella abitava: talvolta vedevo la testa medioevale del vecchio apparire nel vano delle finestruole simili a feritoie, e tutto un passato epico risorgeva davanti a me, nel silenzio intenso dei meriggi profumati dall’odore del lentischio, o nei crepuscoli interminabili quando io stanco di una realtà troppo meschina mi abbandonavo alle mie fantasticherie di adolescente.
Allora tutto mi sembrava poetico nella casa dei miei vicini, il pozzo primitivo che ricorda la costruzione dei «nuraghes», i cavalli che ruminavano il fieno estraendolo dai cestini di canna, il vecchio che li accarezzava e parlava loro come ad amici, la mola romana trainata dall’asinello, la vecchia serva che puliva la farina seduta sotto la tettoia, i ballatoi di legno, e soprattutto una specie di veranda sporgente sul cortile sopra il portico terreno. Era un ballatoio coperto da un tetto di tegole, una rozza imitazione dell’antico «calcidium», sul quale s’aprivano le porte delle camere al primo piano: spesso Columba stava là seduta su uno sgabello accanto a una pianticella di basilico verdeggiante in un vaso di sughero.
Ella cuciva o ricamava e un agnellino nero stava sdraiato ai suoi piedi. I falchi passavano sul luminoso cielo d’agosto sopra il cortile patriar-