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svolazzava di qua e di là come le pernici su gli olivastri, e in ogni pietra vedeva un ricordo, in ogni susurrio di sorgente ascoltava una leggenda.

Così arrivammo a Nuoro e andammo nella casa di zio Giuseppe Maria Conzu. Là rimasi cinque anni a pensione; a pensione per modo di dire perchè pagavo solo il fitto di una stanzetta terrena e mi preparavo il pasto da me con le provviste che ogni due o tre settimane mio padre mi mandava.

Anni di semplicità e di gioia! Io mi alzavo prima dell’alba gorgheggiando con gli uccelli: tutto mi sembrava grande, tutto mi sembrava bello; mi pareva di vivere in una città tumultuosa; se andavo a messa il vescovo mi sembrava Cristo; a scuola consideravo i professori come uomini grandi e celebri, e se coi compagni facevamo qualche escursione nei dintorni o ci spingevamo sino ad Oliena o a Mamojada ero convinto di aver veduto i più bei paesaggi del mondo e di aver esplorato terre ancora ignote. Leggevamo ancora le poesie di Iginio Tarchetti mentre i romanzi e le novelle di Gabriele D’Annunzio ci rivelavano un mondo incantato e malefico, una plaga dolce e ardente piena di fiori velenosi e di frutti proibiti.

Passavo le vacanze qui in paese e le relazioni con la matrigna diventavano quasi amichevoli. Non ero più il ragazzaccio degli anni scorsi ma uno studentello che poteva diventare qualche cosa. Essa mi diceva:

— Perchè non guardi Columba, la nostra vicina? Essa ha roba e zio Remundu molti denari. Si dice che quando era bandito abbia trovato un «accusorgiu»1. Guàrdatela adesso che è ra-

  1. Un tesoro.