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riopinta. La musica suonava una marcia allegra e tutti camminavano e s’agitavano come seguendo quel motivo.

Anch’io camminavo; ma sentivo un gran frastuono entro le orecchie, le gambe mi si piegavano e tra la folla mi pareva ogni tanto di vedere il viso della mia matrigna. Andai a cercare il pastore, ma mi risposero che sarebbe tornato solo all’indomani.

Anche la seconda notte dormii fra i Baroniesi nutrendomi con scorze d’angurie che essi buttavano.

Il secondo giorno della festa andai nuovamente in cerca del pastore ed egli tenne la parola.

— Ti leverai il berretto e le scarpe, — mi disse mentre attortigliava la coda del cavallo legandola con un nastro giallo. — E bada che devi prendere il primo premio; ma non farmi crepare la bestia. Oggi l’ho lasciata digiuna.

— E così ho fatto anch’io! — dissi sbadigliando.

— Meglio! Correrai più leggero: dopo la corsa ti darò da mangiare.

Egli mi accompagnò fino al punto ove i priori della festa registravano i cavalli per la corsa, ed io, montato sul dorso nudo della bestia irrequieta, mi piegavo indietro e in avanti e sui fianchi per far vedere tutta la mia agilità.

Il pastore mi accompagnò per un tratto, poi continuai da solo fino al punto di partenza, che era il ponte tra la valle e la montagna. Gli altri fantini, scalzi e a testa nuda, si sbeffeggiavano a vicenda lodando ciascuno il proprio cavallo: in lontananza sui dirupi dardeggiati dal sole nereggiava la folla qua e là come macchiata di sangue: il rosso dei corsetti paesani.

La fame e il calore del sole mi davano il capogiro; guardavo con ansia i cavalli più belli