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bottando qualche parola in un dialetto che rassomigliava allo spagnuolo. La croce d’oro che posava sul suo petto scintillava al sole e sul suo dito la perla dell’anello pastorale pareva una goccia di rugiada.

Era senza dubbio la più bella e imponente figura del quadro, e i molti preti che si mischiavano al corteo lo guardavano con ammirazione ma anche con un certo terrore. Quando rimaneva indietro nessuno si fermava ad aspettarlo, perchè tutti sapevano che lo faceva apposta per rimanere qualche momento solo.

A un tratto, dopo che il corteo ebbe passato il guado di un ruscello, in un piccolo avvallamento coperto di erba e di fiori violetti, un uomo a cavallo, armato come un guerriero, stretto in un cappotto nero e col cappuccio sul capo, uscì dal bosco e raggiunse il vescovo. Rimasero indietro, soli. L’uomo non era più giovane, ma ancora forte poggiava sulla sella come su una sedia: non un suo muscolo si muoveva, mentre il cavallo camminava come per conto suo, abituato al peso e alla mano che gravavano giorno e notte su lui. Il cerchio nero del cappuccio incorniciava un viso arcigno quasi interamente coperto da una barba grigia ispida le cui due punte si volgevano diabolicamente in su: il bianco degli occhi diffidenti e della dentatura ancora intatta spiccava fra il grigio ed il nero della figura selvaggia.

Un mormorio corse tra la folla; l’uomo era zio Innassiu Arras. Il vecchio davanti alla cui sella io sedevo, e che era un parente dell’Arras, faceva cenno a tutti di non voltarsi, di non disturbare il discorso del vescovo col capo ribelle alle paci. Tutti sapevano che l’Arras avrebbe messo certe condizioni per prendere parte alla cerimonia. Il colloquio col vescovo durò per un