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Giorgio raccontò, attenuando le sue espressioni di collera per non farsi sentire dal servetto i cui occhi, nella penombra, sembravano quelli di un gatto in attesa del topo.

— Fai male! — ripetè il dottore tra il serio e il beffardo. — Tu credi di poter vivere sempre così?

— Vivere! È perchè devo morire che voglio morire in pace.

— Morire, morire! — cominciò a gridare il dottore battendo furiosamente il bastone per terra. — E chi ti ha detto che devi morire? Quelle bestie, lassù? Salutali a nome mio, ottimo amico; essi sono bestie perfette, a cui non manca eppure la ragione. Ah, la paralisi? — proseguì, facendo orribili smorfie. — Quell’amica non avrebbe lasciato il tuo scilinguagnolo così sciolto! Non si muore per un piccolo male come il tuo. Se avessi dato retta, ai miei nervi, alla mia bile, a quest’ora sarei crepato mille volte.

Giorgio rideva; i suoi occhi cercavano quelli di Pretu e ad entrambi le smorfie, le parole, le furie del dottore sembravano la cosa più divergente del mondo.

— Lei era forte; lei è un gigante!

— Alla tua età ero mingherlino come te, ero stupido come te. Come te immaginavo che i mulini a vento fossero castelli. La semenza dei Don Chisciotte non si perde mai, ottimo amico. Ma un giorno mi accorsi che io avevo dentro di me uno spiritello indemoniato: bisognava combattere e strozzare quello lì, non i nemici che non esistono. Siamo noi i nostri nemici, carissimo Jorgeddu; siamo noi che ci diamo fastidio e ci secchiamo notte e giorno. Allora; aspetta, dissi fra me, ora t’aggiusto io, ottimo Don Chisciotte. E rincorsi e chiamai il mio spiritello, come mia madre faceva coi suoi polli quando