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bandonava se non nei momenti di grande eccitazione: il passato, nel quale riviveva continuamente, gli appariva come un sogno confuso, e tutto, nel presente, era per lui caliginoso; eppure attraverso questo velo fosco la vita gli sorrideva ancora come una sirena dagli abissi del mare in tempesta.

La giornata passò, lenta e triste nella stamberga, luminosa al di fuori, nel paese e nei valloni pieni di sole e di vento: egli contava le ore suonate dall’orologio di Santu Jorgj i cui rintocchi gli sembravano i gridi di una cornacchia, e nel suo dormiveglia aspettava sempre l’arrivo del parroco, ma provava, come fin dal primo momento del suo ritorno, anche un senso di attesa angosciosa, il desiderio e la speranza che prima o dopo del prete un’altra persona arrivasse....

Ascoltava i più piccoli rumori del cortile; e le voci lontane, i nitriti dei cavalli, il canto delle galline, ogni vibrazione ogni suono gli destava un ricordo.

Un passo che finalmente risuonò sui ciottoli della straducola lo scosso dal suo sopore: il tramonto di marzo arrossava il piccolo vano del finestrino, l’aria s’era fatta tiepida; ma nella stamberga perdurava l’odore dell’umido e in fondo verso la porta del cortile era quasi buio.

Una voce timida un po’ rauca domandò il permesso di entrare, e la figura alta e curva del prete s’avanzò titubante. Aveva la sciarpa nera intorno al viso scialbo, le mani entro le maniche. Giorgio lo fissò, e quello sguardo vivido d’intelligenza, limpido e parlante come lo sguardo di un bimbo, parve intimidire maggiormente il prete.

— Defraja, il nuovo parroco, — egli mormorò curvandosi alquanto sul letto.

Il malato gli accennò lo sgabello, osservando