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vanni, al di là del Municipio, alcuni buontemponi accendevano qualche razzo e i fanciulli davano fuoco a una catasta di rami di lentischio. «Morire! — pensava prete Defraja andando su e giù per lo spiazzo come una rondine inquieta. — Ebbene, questo è il nostro destino; perchè ribellarsi? Oggi, domani, adesso o poi, è lo stesso; ma che non sia spenta la fiamma d’amore divino, l’amore di Dio che ci guida ed è l’anima nostra».

Sul cielo rosso del crepuscolo i razzi salivano come corde d’oro lanciate dal basso sciogliendosi in grappoli azzurri e violetti, in diamanti e smeraldi. La luna che spuntava sopra Monte Acuto pareva indecisa a salire sul cielo, offesa per lo spettacolo di quei fuochi insolenti che pretendevano d’illuminare loro la sera; una stella rossastra ferma sopra la torre della chiesa guardava invece fissa e malinconica, un po’ pallida e come rattristata dal falso splendore dei razzi....

E prete Defraja camminava, camminava, pensando che le passioni umane, l’odio, il piacere, l’amore della donna, gli onori e i poteri sono simili ai fuochi di gioia in una sera di festa.

Il suo amore di Dio, la gioia di ricongiungersi presto a Lui, erano davanti alle altre passioni come la stella fissa davanti a quei fuochi rapidi e vani. Eppure egli continuava a pensare a Jorgj, alla lettera che era come un piccolo brano dei mari lontani, dei lontani orizzonti del mondo, e come la stella sopra la torre della chiesa anche il suo amore di Dio impallidiva davanti all’amore per le cose del mondo....