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discutere e se ne andò, col suo passo cauto eppure rapido. Nell’uscire dal cortile incontrò zio Remundu che tornava dall’ovile sul suo cavallo carico di fasci d’erba fra cui rosseggiava qualche papavero e spiccava l’oro di qualche ranuncolo.
Anche sul cielo lucido del crepuscolo brillava l’oro delle prime stelle; cadeva una sera pura e dolce, l’aria odorava di erbe aromatiche, le rondini stridevano ancora volando da una casupola all’altra come eccitate anch’esse da una smania di vita che ritardava l’ora del loro riposo.
La figura di zia Simona s’era mossa dalla sua cornice nera: il nonno fermò il cavallo e salutò il prete.
— Come andiamo, pride Defrà? — domandò a voce alta; ma anche la sua voce, come la sua figura, s’era come rammollita. Egli aveva nell’aspetto, nello sguardo, in tutta la persona, un segno di languore, di stanchezza dolce e melanconica.
— Bene, ziu Remundu. E voi?
— E noi invecchiamo, pride Defrà! Ah, sì, tutte le stagioni arrivano!
— La vecchiaia è l’età più bella! È il tempo della raccolta, ziu Remù!
— E se la semina non è stata buona?
— Ah, bè, ma io parlo per quelli che han seminato bene, come voi!
Parlava con ironia, il prete? Dall’alto del suo vecchio cavallo il nonno abbassò gli occhi che avevano ancora lo sguardo dell’aquila, e accennò di sì, di sì, approvando, ma pur esso alquanto ironico.
— Tutti crediamo di seminar bene. Ma tanto volte è la semente che c’inganna! Basta, vuol venire a bere un bicchiere di vino nero?
— Grazie, è tardi: domani, che è festa.