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poi sotto il muro di San Francesco. Ma taceva il nome del ladro anche se le donne si volgevano sogghignando verso la casupola sempre chiusa di Dionisi Oro.

Tutti oramai lo sapevano, che il ladro era stato il mendicante; ma nessuno pronunziava quel nome commentando l’avventura. Perchè buttare la pietra contro l’uomo caduto? Contro un uomo che era già un cadavere? Ma non era la pietà che li ratteneva; era come un senso di vergogna. Essi tutti che un tempo avevano lapidato Jorgj Nieddu, colui che li aveva offesi nel combattere i loro pregiudizi, non sentivano rancore contro l’innocuo Dionisi: tutti gli avevan dato un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua, e tacendo il suo nome, quando parlavano della sua colpa, credevano di fargli ancora l’elemosina. Un giorno il brigadiere, lo stesso che s’era addormentato nella stamberga di Jorgj Nieddu, chiamò in caserma Banna, il nonno, zio Innassiu, il prete, zia Giuseppa Fiore, le donnicciuole vicine di casa dei Corbu; e a tutti domandò se constava loro che il ladro dei denari di zio Remundu fosse Dionisi.

A nessuno constava: a zio Innassiu bastava che Jorgeddu avesse riacquistato la sua fama, se non la sua salute, e non voleva fare la spia d’un miserabile pezzente che egli ospitava: il prete non era obbligato a parlare, zia Giuseppa Fiore disse solo che Remundu Corbu poteva rispondere con coscienza, e Remundu Corbu rispose fieramente che a lui toccava denunziare il colpevole, non far da testimonio, e che lo avrebbe denunziato quando la sua coscienza glielo avrebbe imposto.

Allora il brigadiere mandò a cercare il colpevole; ma il colpevole era sparito anche dall’ovile di zio Arras.

Aggruppate attorno al nonno le donnicciuole