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Si nascose il viso col braccio o scoppiò in pianto. Ella sollevò il viso meravigliata, aprì la bocca ma non parlò; no, bisognava lasciarlo piangere; era un pianto, se non di gioia, come egli voleva far credere, di consolazione e di amore; e mentr’egli nascondendosi il viso vergognoso versava tutte le lagrime che da tanto tempo gli gonfiavano il cuore, ella non molto commossa si guardava attorno.
Vedeva le ragnatele agli angoli delle pareti, l’avanzo del focolare, la cassa preistorica, il tavolinetto così nero che sembrava più antico della cassa, la brocca sgretolata, la forchetta di latta con un dente mozzo, la coperta del letto piena di macchie, la camicia di lui scolorita e rattoppata sul gomito.... E il tanfo di umido che impregnava la stamberga la colpiva lugubremente come un odore di tomba. Le pareva di trovarsi davanti ad un sepolto vivo, e i racconti, le insinuazioni, le suggestioni di zia Giuseppa Fiore, la quale non le parlava d’altro che del disgraziato Jorgeddu, spingendola a proteggerlo, a difenderlo, a vendicarlo, le parvero mille volte meno crudi e tristi della realtà. Ed egli piangeva come un povero bambino seviziato da gente iniqua, solo in fondo a quella caverna; egli che era pieno di intelligenza e di pensiero e che amava la vita al punto di sentirsi ancora qualche volta felice nella sua spaventosa tomba di vivente!
Un fremito di orrore la fece balzare in piedi, smaniosa di muoversi per assicurarsi che era sana ed agile: poi le parole che zia Giuseppa Fiore ripeteva ad ogni momento le punsero il cuore come un rimorso.
«Lei che è ricca e potente deve aiutare il disgraziato ragazzo....»
Aiutarlo? Come? Ella depose i suoi impacci