Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/20


— 10 —

mezzo matto e non capisce nulla, ma gli altri, quelli della città? Quelli son sapientoni…

Al ricordo dei medici e delle loro contradizioni, il malato si sdegnò; il suo viso fino riprese una espressione di energia che contrastava col tremito delle labbra, con le lagrime che bagna-vano l’orlo delle palpebre. E come un gioco di luce e di ombra, di vita e di morte, passò su quel viso cadaverico, entro quegli occhi ove brillava un’anima ribelle.

— Che sanno i medici? Anch’essi!... Siamo tutti eguali, zia Giusé; tutti ignoranti! Uno mi disse che dovevo morire fra otto giorni, e un altro fra dieci anni! Uno mi disse che dovevo restare laggiù, un altro mi consigliò di tornare qui…

— Hai fatto bene a tornare. E dimmi una, cosa: sei solo? Chi ti ajuta? È la tua madrigna?

— State zitta! Essa mi odia! Son solo, sì, come la belva ferita nella sua tana: tutti mi credono un ladro e nessuno si avvicina a me… anche perchè tutti han paura che io domandi loro l’elemosina…. No, zia Giusé! Non ho bisogno di nulla, io; non domando che di lasciarmi morire in pace. Non venite a tormentarmi…

Ma la vecchia impassibile riprese le sue domande:

— Il dottore di qui è venuto? Che dice quel matto?

— Dice che guarirò: invece io so che morrò: e son tornato qui apposta, perchè qualcuno dica: l’ho fatto morire io…

— E tu credi che chi ti ha calunniato possa pentirsi? Ti inganni, figlio mio: quella è razza di assassini, – aggiunse a bassa voce, curvandosi sul malato, – sparvieri sono, maledetti sieno! Sono abituati ad uccidere, quelli; e l’unica arma che possa ferirli è quella che adoperano loro…