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per richiamarla dal sogno in cui sembrava caduta. Ella si scosse e lo guardò negli occhi come per rassicurarlo.

«Non inquietatevi se mi vedete così; oramai tutto è concluso, tutto è finito», pareva gli volesse dire.

Il Segretario mise un gomito sul tavolo, la penna dietro l’orecchio e tese la sua grossa mano di paesano a Zuampredu Cannus, facendogli i suoi augurii. Sì, tutto era concluso, se non finito. Ed ecco i tre se ne andarono tranquilli e in apparenza felici, i due uomini precedendo, la fidanzata seguendoli, mentre la voce dell’usciere gridava:

— Ohè, «feminas avanti!».... — e le donne spingevano verso la sala delle udienze l’imponente vedova col rotolo in mano.

Nell’atrio i paesani discutevano a voce alta, molta gente saliva e scendeva le scale ridendo e parlando come in luogo pubblico; solo Columba conservava la sua aria pensierosa e provava un vago terrore nell’attraversare quel luogo che il popolo considerava come casa sua, o almeno come un rifugio ove si potevano far valere i propri diritti, mentre a lei sembrava un luogo fatale ove era entrata libera e dal quale usciva legata per tutta la vita ad un uomo che non amava.

Nella strada in pendìo la serva del dottore, di ritorno dalla fontana, la raggiunse e le domandò con premura:

— Fatto?

— Fatto.

— Quando vi sposate?

— A Pentecoste.

Margherita fissava la corta e rozza figura di Zuampredu che rassomigliava all’ombra di zio Remundu; i suoi occhi ardenti brillavano di ma-