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— Ebbene, domani mandale quello che le spetta, e non cercarla più.
— Il fuoco la cerchi! — imprecò Columba, avviandosi, col viso di nuovo soffuso d’ombra. Rimasto solo anche il nonno si fece cupo e riafferrò il suo ginocchio con la mano contratta.
— Remundu Cò! — disse a sè stesso con ira, sei vecchio e sei ancora stupido! Non bisogna lasciar sola quella ragazza; troppo l’hai abbandonata a sè stessa! Ogni soffio di vento le sembra una voce ed ella trema come una foglia. Pare che una mala fata la guidi!
Egli non credeva agli incantesimi, ma da qualche tempo in qua ogni volta che si trovava a casa provava un senso di oppressione, come se qualcuno avesse nascosto sotto il focolare una « magia», una di quelle statuette di sughero coperte di spilli come ne faceva anche Martina Appeddu, che consumano lentamente sino a farlo morire il disgraziato sotto i cui piedi stanno sepolte. Columba era sempre di cattivo umore, anche Banna spesso pareva preoccupata: il vecchio ricordava i tristi tempi quando era malata sua figlia e un giorno si sperava di salvarla e il giorno dopo si temeva di vederla morire. Ma no, neanche in quei tempi egli aveva provato l’inquietudine che adesso gli destava Columba. Come un fluido maligno circondava la ragazza: ov’ella passava rimaneva un senso di tristezza. Il nonno non sapeva spiegarsene il perchè, ma ricordava che Giuseppa Fiore, saputo dell’amore di Columba con lo studentello, aveva detto ai vecchioni della piazza: «Remundu Corbu ha peccati da scontare!»
— Peccati, peccati! — egli disse a voce alta scuotendosi tutto come un cavallo a cui dà noia la briglia e la sella. — Io peccati non ne ho, da scontare: quello che ho fatto lo so io perchè