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te, guardò se qualcuno l’ascoltava, poi domandò sottovoce:
— È qui, zia Martina? M’han detto ch’è venuta a portar le vesti. Se c’è chiamatela subito. Presto!... E se è da Banna andiamo là. Andiamo, su!...
Columba la guardò, sorridendo nonostante il suo turbamento.
— Perchè la vuoi? È venuto male al tuo padrone?
— Zitta, che non ti sentano!
— Non c’ò anima viva: le donne sono andate tutte a raccogliere erbe mangerecce. Vivere bisogna, — rispose Columba, che non aveva molta stima delle sue vicine di casa.
Ma in quel momento il mendicante uscì dal suo antro che sembrava una «domo de jana»1) e sedette accanto alla sua porticina bassa circondata di pietre. Il suo viso ispido, i capelli, gli stracci che lo coprivano pur lasciando qua e là vedere le sue membra nerastre, avevano un colore solo come egli si fosso tuffato intero in un bagno di fango: un sacco fermato con una cordicella gli pendeva sulle spalle, e la punta della sua lunga berretta era gonfia, colma di roba. Ogni tanto egli si faceva il segno della croce con una delle medaglie nere che gli pendevano sul petto, e pareva non badasse affatto alle due ragazze; tuttavia la serva non parlò più, e solo con cenni del capo continuò a pregar Columba di accompagnarla in casa di Banna.
Columba chiuse a chiave la porta e la precedette su per la scaletta di Banna, umida per l’acqua che sgocciolava da una tinozza deposta su una panchetta nel pianerottolo. La serva prese la scodella di sughero dal lungo manico di
- ↑ Casa di Jana (piccola fata).