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Un giorno verso il tramonto sentì picchiare alla porta di strada e s’affacciò alla finestra per vedere chi fosse. Una donna alta, pallida, dal profilo aquilino e i grandi occhi neri sormontati da due sopracciglia così folte e mobili che sembravano baffi, guardava in su reggendosi con le mani una «corbula»1) sul capo.
— Zia Martina Appeddu, siete voi? — disse Columba dalla finestra, — adesso vengo.
Scese ed aprì la porta che dopo il fatto ella teneva sempre chiusa a chiave; e la donna, medichessa e cucitrice di costumi, si curvò per entrare col suo canestro, facendosi il segno della croce per non cadere sulla soglia ed evitare così un malaugurio alla sposa.
— Columba, anima mia, tua sorella non c’è?
Vorrei che fosse presente anche lei, per la consegna della roba.
Columba rispose con durezza:
— La roba è mia e non occorre ci sia tutto il mondo per riceverla. Venite di sopra, in camera mia.
Risalì al piano superiore e la donna la seguì. La camera dava sulla veranda ed era vasta, bassa, con un gran letto alto e duro circondato in fondo da un volante di stoffa a quadretti bianchi e rossi; dodici sedie antiche, di noce e di paglia, annerite dal tempo, s’allineavano simmetricamente lungo le pareti tinte con la calce, tre da una parte e tre dall’altra dell’alto cassettone scuro, tre da una parte e tre dall’altra di una lunga cassa nera scolpita.
Un ordine quasi tetro regnava nella vasta camera ch’era stata della madre di Columba e dove ora pareva non abitasse più nessuno.
Zia Martina depose la «corbula» sulla cassa
- ↑ Cesto di asfodelo.