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la casa del parroco e quella di zia Giuseppa Fiore, — le cui finestruole munite d’inferriata e i balconi di ferro al primo piano guardavano sulla piazza, uscì una vecchia di bassa statura, col viso pallido seminascosto da una gonna nera in cui ella avvolgeva la testa e metà della persona come in un mantello; e prima di scendere gli scalini di granito che da una specie di «patiu» come quello dei «nuraghes» mettevano sulla piazza, volse in giro i grandi occhi cerchiati e un’espressione di sarcasmo le circondò d’un solco la bocca sdentata.

Eccoli tutti lì, sulle panchine e lungo il parapetto, gli sfaccendati del paese. Un tempo non era così, quando il villaggio, diviso in due partiti da un’inimicizia che appassionava anche i vecchi e i ragazzi, viveva d’una vita violenta ma anche attiva, e tutti stavano nelle loro case o nelle loro terre per badare alla propria roba e salvaguardarsi dai nemici. Ma da qualche anno, per intervento delle autorità ecclesiastiche e civili, le famiglie nemiche avevano fatto pace: gli animi, almeno in apparenza, si erano acquietati, e una specie di mollezza, di decadenza di costumi rendeva il paese sonnolento.

Tutto il santo giorno gli uomini giuocavano alla morra come fanciulli, e i vecchi tacevano, seduti all’orientale sopra la pietra delle panchine, immobili e già morti prima di aver chiuso per sempre gli occhi. La piccola vecchia scosse la testa sotto il suo bizzarro mantello nero, e scese lentamente gli scalini. Il vento sibilava ancora, a intervalli, e gli alberi spogli della piazza si agitavano sullo sfondo brillante del cielo come grandi polipi nell’acqua. Faceva freddo, ma i paesani barbuti e robusti, rossi in viso, con occhi nerissimi e denti candidi, erano vestiti di orbace, di pelli, di saja, con cappotti stretti e