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da un senso di attesa angosciosa. Doveva succedere qualche cosa: era impossibile andare avanti così. Io passavo quasi tutta la giornata buttato sul lettuccio a leggere o a dormire: Pretu il servetto mi portava l’acqua, le provviste e i pettegolezzi del paese, dicendomi che tutti parlavano male di me: e come il ronzìo della conchiglia fa pensare al rombo del mare, le ciarle ingenue del ragazzo mi davano una vaga idea dell’onda di odio e di sospetto che mi circondava.

Ai primi di agosto fui per qualche giorno malato di febbri reumatiche: speravo che Columba venisse a trovarmi, ma ella si contentava di mandarmi frutta e vivande e di chiedere notizie al servetto. Mi rodevo di tristezza ma non mandavo a chiamarla. «Se ella mi amasse, verrebbe» pensavo aspettandola; ma ogni ora che passava ci divideva come anni ed anni di lontananza.

Com’ero triste e solo! Io che mi sentivo buono e felice nella solitudine vera, in mezzo agli uomini mi sembrava di essere come un condannato carico di catene: ogni movimento per liberarmi mi inceppava di più.

Appena mi sentii meglio me ne andai a Nuoro. C’erano le feste, ed io volevo rivivere almeno col ricordo nei giorni sereni della mia adolescenza. Invano! La noia e l’inquietudine mi seguivano.

Per aumentare la mia tristezza, in mezzo alla folla mi apparve il viso bonario di Zuampredu Cannas. Egli camminava in mezzo a un gruppo di compaesani suoi e parlava animatamente. Perchè quando mi vide tacque e finse di non riconoscermi? Fu una mia illusione? Mi sembrò che anch’egli diventasse pensieroso come se la mia presenza destasse in lui le preoccupazioni che la sua destava in me.

Per due giorni lo seguii attraverso la folla, spinto verso di lui da un misterioso senso di