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zio Innassiu Arras; le pietre che avevan forma d’un camino naturale conservavano un po’ di cenere e di tizzi spenti, ma il vecchio non c’era.
Gira e rigira a un tratto mi sentii chiamare da una voce sonora, alla quale seguì tosto un nitrito di cavallo e poi un raglio lamentoso e il canto d’un gallo che stonò bizzarramente nella pace armoniosa del luogo.
Erano due studenti di Nuoro miei antichi compagni; andavano a fare una scampagnata in un ovile lì vicino e m’invitarono. Li seguii e passammo anche la notte lassù, cantando e ridendo. Quello che imitava la voce degli animali e il canto degli uccelli aveva un flauto e cominciò a suonare: a un tratto nel silenzio della sera tranquilla s’udì un lamento d’assiuolo, melanconico e cadenzato, or vicino or lontano come il grido di uno spirito errante nella notte. Lo studente suonava il flauto, l’assiuolo rispondeva col suo lamento; e il paesaggio notturno parve animarsi di folletti e di fate, di ninfe e di fauni, di cervi che si rincorrevano nel bosco e di lepri che danzavano alla luna. Il dolore e la menzogna erano scomparsi dalla terra e solo una melanconia piacevole velava la dolcezza di quel mondo fantastico.
Anche dopo che i miei compagni si furono addormentati sotto le loro bisaccie io rimasi a fantasticare fra le roccie. Ricordavo la sera in cui avevo ballato con Columba e mi ritrovavo nel mondo sognato allora; ma ella, ella non c’era, nè io desideravo più che ci fosse. Provavo l’ebbrezza della solitudine e ascoltavo le voci delle cose: il cielo davanti a me sopra il mare mi sembrava un orizzonte boreale; sentivo le pecore a brucare il fieno e distinguevo il rumore degli steli spezzati; le roccie sotto la luna mi parevano torri; tutto era bello e fantastico. Quan-