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mi irritavo contro me stesso per il mio inutile sdegno; e come da ragazzetto dopo la caduta da cavallo, me ne andavo nei dintorni del paese fino all’altipiano o scendevo giù nella valle spinto da un profondo bisogno di solitudine. Partivo alla mattina presto e se incontravo il dottore che andava a caccia facevamo assieme un tratto di strada, ma poi uno tirava a dritta, l’altro a manca, desiderosi entrambi di star soli.

Sebbene d’estate, il tempo qualche volta era fresco; soffiava il vento, il cielo sembrava il mare, sparso di nuvole immobili simili ad isole e a scogli argentei.

Io percorrevo i sentieri più scoscesi, fra macchie d’arbusto e di ginestra, e il vento che mi batteva sul viso e sul petto mi dava l’impressione di una mano che cercasse di spingermi indietro, ma scherzosamente. Veniva il lieto soffio, si ritirava, ritornava all’improvviso, pareva stesse in agguato allo svolto del sentiero e mi assalisse tutto ad un tratto con la speranza di abbattermi sulle roccie e di sballottarmi meglio dopo avermi vinto; a volte mi pareva che il vento fosse animato e avesse voglia di lottare con me per divertirci assieme come fanno i ragazzi e sentivo anch’io una smania di saltellare, di combattere con gli elementi, di unificarmi con la natura che mi circondava. Quando mi trovavo in quello stato d’animo dimenticavo tutto e tutti: Columba, i suoi parenti, il paese intero, persino i miei studi.

Come il bimbo in grembo alla madre io mi sentivo cullato e sicuro quando sedevo sulle roccie o posavo la testa sull’erba. Il vento era mio fratello; le nuvole i sogni che non potevan tradirmi; l’eco la sola voce che non potesse ingannarmi. Un giorno rifeci la strada fino alle roccie simili a un castello, e andai in cerca di