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la cerbiatta 227


pito della bestiuola si comunicava al suo cuore; egli tornava con lei alla capanna solitaria e gli pareva di non esser più solo al mondo, sbeffeggiato e irriso persino dal suo servo.

Ma nella realtà purtroppo non avveniva così: la cerbiatta si avvicinava un po’ più ogni giorno, ma se appena vedeva il servo o qualche altro estraneo, o se il vecchio accennava a muoversi, si slanciava lontana come un uccello dal basso volo, lasciando appena un solco argenteo fra i giunchi al di là della radura. Quando invece il vecchio era solo immobile sul suo sgabello di pietra, ella si attardava, diffidente pur sempre, brucando l’erba ma sollevando ogni tanto la bella testina delicata; ad ogni rumore trasaliva, si volgeva rapida di qua e di là, saltava in mezzo alle macchie: poi tornava, s’avanzava, guardava il vecchio.

Quegli occhi struggevano di tenerezza il pastore. Egli le sorrideva silenzioso, come il Dio Pan doveva sorridere alle cerbiatte delle foreste mitologiche: e come affascinata anch’essa da quel sorriso la bestiuola continuava ad avanzarsi lieve e graziosa sulle esili zampe, abbassando di tanto in tanto il muso come per odorare il terreno infido.

Il latte e i pezzi di pane che il vecchio deponeva a una certa distanza la attiravano. Un giorno prese un pezzetto di ricotta e fuggì; un altro si avanzò fino alla ciotola, ma appena ebbe sfiorato il latte con la lingua trasalì, balzò sulle quattro zampe come se il ter-