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Eran tornate le lunghe e tiepide sere di maggio e ziu Tomas sedeva di nuovo, come l’anno prima, come dieci anni prima, nel cortiletto aperto davanti alla sua casetta che era come l’ultimo acino d’un grappolo di piccole costruzioni nerastre addossate alla crosta grigia di un monte. Ma invano la primavera mandava fin lassù il suo soffio di voluttà selvaggia: il vecchio decrepito, immobile tra un vecchio cane nero e un vecchio gatto giallo, sembrava pietrificato e insensibile come tutte le cose intorno. Solo l’odore dell’erba, alla sera, gli ricordava i pascoli fra cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita, e quando la luna sorgeva dal mare lontano, grande e dorata come il sole, e i monti della costa, neri sul cielo d’argento, e tutta la grande vallata e il semicerchio fantastico delle montagne davanti e a destra dell’orizzonte si coprivano di veli scintillanti e di zone d’ombra e di luce che davan l’illusione di foreste e laghi lontani, egli pensava a cose puerili, ai morti, a Lusbè il diavolo che conduce al pascolo le anime dannate tramutate in cinghiali; e se la luna si nascondeva dietro qualche nuvola egli pen —